Baretto Beltrade, 28 settembre – 29 ottobre 2017

Con il termine “number stations” veniva identificato il modo bizzarro con il quale, durante la Guerra fredda, i governi inviavano messaggi segreti ai loro agenti che facevano le spie in Paesi stranieri. Ci si serviva di emittenti radiofoniche con trasmettitori potentissimi in onde corte che trasmettevano il codice identificativo del messaggio, seguito da una sequenza di numeri letta da voci a seconda dei casi maschili, femminili o anche di bambini, spesso trasformate in timbri paurosi oppure computerizzati, che rendevano il discorso, già misterioso di suo, ancora più drammatico. Nessun governo ha mai ammesso l’esistenza delle number stations. In pratica, le radio mandavano in onda a un orario prestabilito dei messaggi numerici. Le spie accendevano la radio dal Paese nel quale erano in missione e tramite le istruzioni in codice riuscivano a identificare il messaggio: nessuno era in grado di farlo eccetto coloro ai quali era rivolto. Oggi le number stations esistono ancora, ma sono sempre più rare. Tutti siamo sempre connessi grazie alla tecnologia, che si basa sempre su numeri e codici: ognuno di noi, quindi, con tutto quanto facciamo, comprese le nostre fotografie come quelle qui esposte, potrebbe essere utilizzato come metodo di trasmissione di messaggi segreti, se qualcuno volesse farlo. Ognuno di noi, come i soggetti di queste fotografie, può diventare number station.

Su questo sospetto ha lavorato Darko Labor, allestendo una sequenza di “messaggi cifrati” che attingono ai materiali più vari: fotografie in presa diretta, fotografie prese dalla rete, ritratti di persone defunte, ricostruzioni attraverso montaggi, sovrapposizioni, ridondanze, una sorta di saturazione del codice che lascia aperta la strada a interpretazioni e rimandi. La fotografia smette di essere rappresentazione del mondo o di sé, diventa pura traccia che lo spettatore, come un investigatore o un agente oltrecortina, può provare a decrittare. A suo rischio e pericolo.

Ma chi era Edna Sednitzer, ossia Edna S.? Non si è mai scoperto, ma alcuni esperti sostengono fosse una number station che trasmetteva dalla Bulgaria. Una voce femminile automatizzata. Probabilmente una spia, o almeno una catena di numeri che erano in realtà messaggi segreti in onde corte. Quasi tutti gli amici di Edna S. sono morti.
Ancora oggi però si può ascoltare la sua voce: www.numbers-stations.com/ns/german/g22/


L’autore

Darko Labor ha lavorato per più di 20 anni come giornalista radiofonico e televisivo nel suo Paese di nascita, la Croazia. La passione per la fotografia nasce come difesa personale dalle deadline giornalistiche e come modo per proteggere se stesso dai ritmi frenetici che il suo lavoro gli imponeva. Col tempo, la fotografia ha iniziato a occupare tutto il suo tempo e il suo spazio. Darko Labor attualmente vive e lavora a Milano. Fotografa gente per le strade, vetri rotti, vetrine sporche, tovaglie, tende, santini e altri oggetti ancora: a volte da soli, a volte utilizzati come pezzi che poi diventano fotografia di qualcosa che, in quel momento, reputa bello o interessante da dire.


Contatti
FB: Darko Labor
Lensculture: darko-labor

Perché il Baretto vuole bene a Darko Labor

Al Baretto conoscevamo già da tempo i lavori di Darko Labor: fotografie raccolte in serie da cui emerge sempre una città cupa, sfocata, spesso notturna, umani ridotti a ombre, a presenze, a fantasmi. Poi qualche tempo fa sui suoi profili hanno iniziato a comparire fotografie diverse: strane, disturbanti, a volte ermetiche, incomprensibili, altre volte abrasive e spaventose. Come se avesse fatto un salto, o un avvicinamento netto al suo tema, come se avesse deciso di focalizzare diversamente il suo sguardo. Fotografie radicali, ma in che direzione? E perché quel titolo, Edna S.?

Quando Darko è tornato a trovarci ci ha parlato, con la sua solita dolcezza, di Europa dell’Est, dei posti in cui è nato e cresciuto, ha raccontato una strana storia di agenti segreti, di emittenti radio che trasmettevano esclusivamente sequenze di numeri destinate ad agenti che ne possedevano la chiave per trasformarle in dispacci, ordini, azioni da compiere. Edna Sednitzer era una di queste radio. Probabilmente trasmetteva dalla Bulgaria. Ma non fu mai trovato né il trasmettitore né chi lo gestiva. Probabilmente una spia che confezionava catene di numeri che erano in realtà messaggi in onde corte. E, aggiungeva Darko, gli amici di Edna oggi sono quasi tutti morti. E ci ha dato un link per ascoltare, a distanza di decenni, la registrazione di uno di quei messaggi. Una voce femminile automatizzata, lontana e disturbatissima, declamava con voce monotona e inflessibile numeri su numeri. Faceva pensare a un messaggio dall’oltretomba, forse rivolto ai morti, forse dai morti ai vivi, forse era la morte stessa che indicava la sequenza del suo lavoro.

–> www.numbers-stations.com/ns/german/g22/

E poi Darko ci ha spiegato come stava lavorando alle sue fotografie: utilizzando volti di defunti raccolti nei cimiteri, oggetti trovati per strada, particolari di interni di ristoranti cinesi, di tutto, e poi sovrapponendo, scomponendo, ricostruendo attraverso montaggi, raddoppi, ridondanze, una sorta di saturazione del codice.

A quel punto abbiamo riguardato il suo lavoro. Il tema costante delle sue fotografie, fin dai primi progetti, è sempre stato il buio, l’oscuro, la confusione dei tratti e delle forme, la cancellazione dell’identità, la traccia lasciata nella memoria ma per poco. Cosa riunisce tutto questo, se non la morte?

Edna S., allora, è un lavoro sulla morte, o meglio su come la morte lavora su di noi. E come lavora? Darko Labor “spiega” con le sue fotografie che lavora in vari modi. La morte fisica lavora come cancellazione, come abrasione dell’identità incarnata nel corpo e nel viso che diventa anonimo, qualunque, pura carne. Restano, per un po’, un fiore finto tenuto tra i capelli, la forma di un cappello, un ricordo. Lavora poi sovrapponendo, scomponendo e ricomponendo gli individui e triturandoli nella memoria come nella terra, raddoppiandoli, disturbandoli e infine smembrandoli. E lavora infine in un modo più sottile ma non meno terribile: lavora attraverso la vita. In ognuno di noi ci sono pezzi dei nostri padri, dei nonni, dei bisnonni. Un modo di muovere la mano, una tipica smorfia del viso, un’intonazione “di famiglia” che identifica i fratelli, i figli, i nipoti. La vita usa la morte per proseguire, e viceversa. Ma proprio in queste ultime fotografie compare anche dell’altro: delle greche, dei motivi grafici, ornamentali, sembrano residui di tappezzeria di poco valore, o brani di manifesti o pagine di giornaletti di cui compare anche la carta consumata. Paiono del tutto fuori contesto, e invece no. La greca è, all’origine, il disegno, cioè il segno, la figura, la piega che il mondo opera su di sé attraverso una sua parte (gli uomini che iniziano a tracciare figure, in genere di animali e di se stessi) e attraverso cui si raddoppia, si guarda diventando traccia, rimandando. L’origine della civiltà degli uomini è nella comprensione del lavoro della morte, della sua capacità di raddoppiarsi nei vivi e nel fare segno, nella catena ininterrotta delle generazioni. Gli animali non conoscono la morte, gli uomini la conoscono, la temono, la venerano. La civiltà nasce dal rito funerario come celebrazione, forse come salvezza. Come unanimità di una provenienza e di una destinazione. Questo è, a nostro parere, il messaggio che Edna S. declama ormai rivolto a nessuno, il codice perduto di agenti ormai quasi tutti morti, il messaggio degli amici di Edna S.