Un fotografo gira per la città, è stanco e gli fanno male i piedi così si ferma e si siede sui gradini, poco distante da una persona che vive per strada. I due chiacchierano un po’, se la raccontano amabilmente. Viene fuori che il fotografo è per l’appunto un fotografo, così la persona che vive per strada chiede al suddetto fotografo di fargli una foto: quello sai fare, no? Quindi fallo. Ok, il fotografo fa la foto, poi è ora di andare e così i due si salutano. Portamela eh! Certo, la stampo e te la porto. Fine della breve storia.

Dopo aver apprezzato l’etica del fotografo, che non scatta con lo zoom agli sfortunati ma si siede e condivide del tempo e scatta solo se proprio deve, vengono da fare alcune altre considerazioni sulla foto in questione. Perché quando il fotografo fa vedere la foto ad altri, su FB per esempio, qualcuno commenta: si, ok, è uno scatto assolutamente normale, capisco la storia che c’è dietro, ma niente di che.

Cosa intendiamo quando diciamo: “Questo è uno scatto assolutamente normale”? Probabilmente intendiamo che privilegiamo la ricerca della bella foto, della foto forte, dell’estetico, dello spettacolare, dell’emozionante ottenuto per via di tecnica compositiva, cromatica, formale e per capacità di intuire quale soggetto potrà funzionare. Mentre qui non c’è niente di tutto questo: c’è il ritratto “normale” di una persona che pretende, per essere compreso, di ascoltare la storia che ci sta dietro e di cui è memoria: il fotografo che si ferma, le chiacchiere che scambia con lui, cosa gli racconta, le cose che uno e l’altro hanno scoperto. Questo è il suo “senso”, ciò per cui è stata fatta proprio così. Magari solo dopo si apprezza ad esempio quel cartone su cui la persona che vive per strada ha scritto la sua breve storia a scopo commerciale, le parole scelte, soprattutto la sua grafia – lo stai immaginando intento a scriverle, vero? – o, ecco: il pacchetto di tabacco per terra.

La fotografia è interessante, diceva Franco Vaccari, perché qualcosa a volte sfugge al calcolo dell’operatore e quel particolare prima non notato, ma che “l’inconscio della tecnica” solidificato nella macchina ha registrato, torna indietro, racconta una storia e ti ferisce. Lo strazio è nei particolari che non avevi previsto, che non avevi studiato, dice Barthes ne “La camera chiara”.

Però a quanto pare resta una foto normale.

Eppure le ricerche più interessanti di questi decenni in campo fotografico – dalla neo-topografia di Baltz, Adams, Shore alle ricerche di Struth, dalla fotografia narrativa e di relazione di Nan Goldin alla ossessione di Michael Wolf per gli oggetti in cui si sedimentano le culture materiali, fino alla “ri-fotografia” e alle sperimentazioni sugli usi vernacolari delle foto – hanno insistito in tutti i modi sulla necessità di superare l’approccio estetizzante, perché è proprio quello a mantenere (sempre meno) la fotografia in uno stato di minorità, prossimo al decorativo e all’art pompier. La dignità del mezzo fotografico passa dall’emancipazione dal decorativo per approdare come tutte le arti, consapevoli o meno di esserlo, al senso come necessaria sintesi dei sensi.

Ancora Vaccari, riprendendo altri, sosteneva che “possiamo vedere solo ciò che conosciamo già”; per questo in fotografia tendiamo a riprodurre ciò che è noto e andiamo alla ricerca di cliché: visivi, emotivi, ideologici, sociali. Sono quelli a funzionare. Cerchiamo, come il cane di Pavlov, ciò che ci fa salivare. E niente fa salivare come un cliché, perché l’abbiamo già sperimentato, perché ritorna. Ci emozioniamo a comando. Basta il gioco di geometrie, la regola di terzi, la palette di colori di moda, il tema suggestivo, il Soggetto Forte (ma non si era detto che quella che vedi sul quadro non è una pipa?), il gioco di luci, la coincidenza visiva – purché già vista mille volte – che fa dire “oh!” e non perché sovverta lo sguardo e lo apra, ma perché lo conferma e consola, lasciandoci un margine confortevole e autoindulgente di blanda sorpresa che non costa niente e in genere non significa niente. Mentre più interessante, per Vaccari, sarebbe cercare di vedere ciò che ancora non conosciamo. Ma per farlo occorre uscire dall’automatismo del “bello”, dell’estetico.
Fine della seconda storia.

Il fotografo è Diego Bardone, la persona che vive per strada è Salvatore.