«Ora che tutti possono fare foto e soprattutto farle vedere all’istante se ne fanno troppe, ci sono in giro miliardi di foto, è una marea, ci sommergono, non siamo più capaci di vedere»: è una frase molto diffusa che in apparenza si mostra consapevole dei mutamenti introdotti dal digitale, in realtà dimostra di non averne capito granché.

Le fotografie, da quando esiste la rete e il suo modello di relazione istantanea e diffusa, sono entrate nella comunicazione quotidiana, le usiamo in modo non molto diverso da come usiamo parole, gesti (emoticon) o altri segni per dire, indicare, dimostrare, far ridere, esibirci, pietire attenzione, segnalare la nostra arguzia, esprimere opinioni e un sacco di altre cose.

Provate però a sostituire fotografie con parole: “Ci sono troppe parole in giro, non siamo più capaci di ascoltarle”. Non sembra piu tanto sensata, vero? Troppe per chi? Chi lo decide? Quante se ne possono usare al massimo: duemila? Due milioni? E poi tutto dipende dai contesti, dalle situazioni: ci sono le parole intime, le parole di gruppo, le liste della spesa, i dibattiti, i litigi, i saggi, le poesie immortali, quelle immorali, le conversazioni al bar, le dichiarazioni dei redditi, i testi delle canzoni, i decreti legge, i discorsi del re, i deliri e potremmo proseguire per mezz’ora e in qualche caso quella frase potrebbe persino sembrare sensata, in altri proprio no.

Ma poi, tornando alle foto, per quale motivo dovremmo desiderare di vedere tutte quelle che vengono scattate, intento la cui impossibile attuazione dovrebbe lasciarci frustrati e desiderosi di fermarne il flusso? Per nessun motivo sano. Ognuno di fatto guarda le sue, quelle dei suoi amici, quelle che gli servono, quelle che gli piacciono, quelle che produce per mille motivi. E il fatto che se ne scattino tante per una marea di scopi diversi, per quale motivo dovrebbe ridurre la nostra “capacità di vedere”, cioè di decrittare o di riconoscere? Il fatto che sulla Terra tutti gli umani siano dotati di parola e la usino, crea forse un disagio auditivo o cognitivo, un rumore di fondo tale da renderci impossibile il loro discernimento? Nessuno ha un orecchio tanto grande per doverlo temere, né una vista talmente estesa da rischiare che la totalità delle foto la saturi.

E fuori di metafora, un dibattito pubblico cui tutti potenzialmente potessero partecipare contemporaneamente sarebbe probabilmente causa di grande confusione, ma questa è l’impressione passeggera di chi ancora non si è abituato a una situazione in cui, come è ovvio, in realtà pochissimi partecipano contemporaneamente a qualcosa e pochissimi di quei pochissimi lo fanno avendo voce in capitolo in quel contesto, e invece moltissimi partecipano a infinite cose, che sono collegate o scollegate tra loro in infiniti e mutevoli modi. È questa strana e nuova, mutevole e vertiginosamente articolata figura ibrida dell’essere-in-comune, con le sue promesse e i suoi orrori, quella che dovrebbe interessarci, che dovremmo analizzare, non quella un po’ superficiale che mostra confusione dove in realtà si proietta nostalgia.

Se poi qualche noto o anche meno noto autore, della cui coerenza concettuale non ci importa più di tanto, ha usato quella frase come scusa per produrre splendidi lavori fotografici, magari usando foto antiche “ritrovate” e ricontestualizzate oppure riversando montagne di foto in una stanza, questo non sembra un motivo sufficiente per cannibalizzare la sua brillante idea e farla diventare un “genere” per sedicimila altri progetti tutti uguali, la marea dei quali, quella sì, è decisamente troppo vasta e ci fa passare la voglia di vederne ancora.