Una delle ultime pubblicazioni in casa Urbanautica è il bel libro di Santolo FelacoCaput Mundi“, uscito qualche mese fa.
Non deve essere un’impresa semplice affrontare il racconto della città eterna, cercando di rimanere lontani dagli stereotipi che da secoli avvolgono una realtà gravata da un’eredità così pesante, lontani dai cliché di depliant e cartoline, del classico e del barocco, della gloria e della decadenza, della dolce vita e della grande bellezza.
E allora meglio provare a raccontare una Roma marginale, una città spinta nel dettaglio, dove gli elementi e i personaggi, che nell’immaginario comune assemblano Roma, sono visti in controluce, o in negativo, o in brandelli di immagini che fanno della città il simulacro logoro di se stessa.
L’ambientazione spesso notturna e dimessa racconta una Roma inusuale, malinconica e smarrita, che non espone le sue grazie di matrona un po’ avvizzita, ma si sottrae piuttosto allo sguardo, ritraendosi dalla scena, tendendo un braccio a indicare un qualcosa lontano, in un gesto che sembrerebbe evocare antichi e lugubri fasti, ma che oggi resta incerto, esitante, come sospeso nel tentativo disperato di trattenere qualcosa prima che scompaia del tutto.
Fin dalla copertina, sentiamo questa atmosfera di disfacimento, che si rispecchia nel ritratto appena percettibile, poco più di uno schizzo, di Pasolini, che affiora dalla carta come un rimorso sotterraneo, un pensiero trattenuto, mentre i suoi versi all’interno del libro echeggiano il ricordo lontano di dolci sere e di “festivi ardori”.
Il millenario patrimonio artistico è ridotto a particolari inquietanti di statue e di tele, che emergono da un barocco fondo scuro. Il nero è lo scenario ricorrente da cui la luce ritaglia dettagli scollegati da un contesto, che resta invisibile: un braccio, un volto umano, o di una statua, o di una tela, brandelli di poster e manifesti dimenticati su qualche parete. Frammenti instabili e irregolari capaci solo di evocare un’assenza, senza potersi avventurare in una narrazione compiuta.
È il racconto di Roma tramite la sua negazione, l’eclisse definitiva dell’immagine sfaccettata e molteplice costruita nei secoli.
Piuttosto che cercare i segni della bellezza o della decadenza, meglio allora perdersi nel particolare insignificante o nella forma inestricabile del groviglio e del labirinto, incapace di mantenere la promessa di una catarsi estetica, semmai di offrire la consolazione di uno sguardo ipnotico e allucinato in cui smarrirsi per un istante.
Curiosa questa città in cui affiorano volti e figure solitarie, dall’aria straniata, e in cui la moltitudine compare solo come schiera che marcia in parata.
Roma è un rincorrersi di frammenti disarticolati e sbilenchi, senza mai trovare la benché minima visione di insieme, relitti di un naufragio che galleggiano verso la deriva, al di là di ogni condanna o assoluzione. In questo mosaico impazzito, l’anima della città viene ricercata non solo ai bordi del pesante fardello della sua storia, ma anche in sprazzi di natura, anche questi isolati in frammenti, senza potersi relazionare o integrare con l’eredità del passato.
Resta in fondo poco più di un desiderio di levità, accennato da un candido gabbiano in procinto di aprire le ali, e da una donna in vestaglia rosa e pantofole su un tetto, forse anch’essa sul punto di spiccare il volo, alla ricerca di un’impossibile leggerezza.
Alla fine, nelle ultime cinque fotografie, lo sguardo rimane puntato costantemente verso il cielo della notte, sotto il quale vegliano figure sfuggenti, ruderi e gatti neri, come rottami senza nome sotto lo sguardo indifferente di una luna velata e lontana.