Tutti quelli che hanno avuto a che fare con un ritratto fotografico lo sanno: non stiamo parlando di registrazione oggettiva. Nemmeno se al posto di oggettivo diciamo autentico ci avviciniamo, non è questione di mettere qualcuno a proprio agio perché emerga “il suo vero volto”: perché, quello a disagio è un volto meno vero o meno autentifico?

La fotografia (come spiegava Thomas Ruff parlando dei suoi memorabili ritratti) coglie la superficie; l’idea che serva a catturare l’anima è una sonora sciocchezza che si dice per sentirsi importanti. Del resto è facile da dimostrare: secondo voi come ci sta un’anima intera dentro un rettangolo, e per di più pure piatto? Ma allora cosa succede durante un ritratto?

«Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte». La frase di Roland Barthes è memorabile. Davanti all’obiettivo finisce che mi atteggio e quando “sono naturale” va persino peggio. Da questa parte non si può prenderla. Occorre invece osservare la cosa da un altro punto di vista e notare “chi c’è” quando si fa un ritratto: il fotografo, il fotografato, il set, il contesto, la fotocamera. Tutti quanti concorrono a produrre il risultato, ognuno con le sue specificità.

Il ritratto è quindi, si dice meglio, il resoconto fotografico di una relazione, quella che si instaura in quel momento, in quel luogo, tra quelle persone, davanti a una macchina fotografica. E ogni relazione finalizzata a un ritratto è diversa da un’altra. Se ti faccio salire su un set e ti dico dai su facciamo in fretta, viene fuori un ritratto; se chiacchiero con te e ti faccio ricordare un momento dell’infanzia che avevi quasi scordato, ne viene fuori un altro; se ti faccio recitare la parte del “te stesso naturale e spontaneo” eccone un altro ancora. Se penso di sapere chi sei e faccio di tutto per afferrare ciò che cerco, probabilmente lo troverò perché ce lo metto io. E così via.

Dunque a ben vedere fare e farsi fare un ritratto vuol dire entrare in un gioco di specchi tra i due partecipanti, le rispettive proiezioni e la fotocamera che, a suo modo, sigilla ciò che ad arte e quindi per gioco viene fatto accadere.

 

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Stefania Oppedisano fotografata da Marco Rilli alla festa FLASH, organizzata dal Baretto alla Libreria Verso.
Il libro è “1999” di Iacopo Pasqui, pubblicato da Witty Kiwi