Hebe Robinson è una fotografa norvegese; con il progetto “Echoes” esplora la memoria della parte settentrionale del suo Paese, le isole Lofoten.

Nel 1950, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo norvegese ha attuato un piano di ripopolazione urbanistica, chiedendo agli abitanti delle isole Lofoten, previo finanziamento, di lasciare le aree rurali del nord, per trasferirsi nelle zone centrali.
Hebe Robinson ha incontrato alcuni abitanti originari dei luoghi, li ha intervistati, si è incuriosita alla loro storia: vichinghi abituati a vivere in condizioni drammatiche, tra temperature rigide e difficoltà di approvvigionamento, che avevano creato un sistema di vita rurale nell’incanto della magia ancestrale di quei luoghi.

Una natura prepotente e sovrana, in cui l’uomo diventa semplice elemento come la roccia. Robinson inizia a fare ricerca, incontra gli abitanti originari, gli eredi, ascolta i loro racconti e si fa dare vecchie foto. Dai luoghi rappresentati inizia il viaggio spazio-temporale, cercando i luoghi del tempo presente in cui le vecchie foto sono state ambientate: «I wanted to bring life back to these places that were left so suddenly» scrive Hebe «I did that by returning historic photographs to where they once were taken, linking past and present together».

Individua cinque luoghi abitativi da investigare: alcuni sono assolutamente remoti, raggiungibili solo tramite barca, o usando slitte per attraversare lande innevate. Seleziona due modalità per attivare la macchina del tempo: produce grosse stampe fisiche che installa esattamente nei luoghi dove sono state originariamente scattate le foto eliminando lo scarto spaziale, stesso luogo diversa temporalità; oppure proietta le foto antiche direttamente su superfici come rocce o pareti in legno di ruderi abitativi.

Il risultato è poetico e documentario allo stesso tempo. La natura incontaminata, i vasti spazi reali dialogano con le persone trasformate in rappresentazione a due dimensioni, superfici che sfondano il paesaggio creando brecce temporali.
L’effetto è doppio, perché la rappresentazione del dispositivo fotografico inserito nel contesto naturale è a sua volta catturata e rappresentata con l’immagine nell’immagine, creando una ridondanza narrativa che si perde nel tempo per raccontare la storia.
Il dispositivo fotografico, come dispositivo di memoria che mette in comunicazione il presente con il futuro (il passato è già presente nelle fotografie) costruisce un triplice legame temporale: con l’autore al momento dello scatto, con il tempo delle phototrouvées degli antichi abitanti, con l’atto di ricerca della memoria che svolge Hebe Robinson quando ascolta i racconti degli antichi abitanti, prima che con un gesto di scambio (consegnando le vecchie foto) viene attivato il processo artistico.

Le foto sono arricchite da una breve didascalia, poche parole che contestualizzano il momento/storia di scatto degli antichi abitanti.