Il Baretto ritorna in visita all’Osservatorio Prada per l’esposizione “Touch that made you” dell’artista fotografo Norvegese Torbjørn Rødland (classe 1970), in programma dal 05 aprile al 20 agosto. Gli spazi dell’Osservatorio cambiano vestito, le vetrate illuminate filtrano sui vetri delle cornici luci tenui, lo spazio si raccoglie, l’attenzione si concentra, le dimensioni interne variano la percezione dell’ambiente del visitatore perché qualcosa è cambiato. L’esposizione è site specific: sono installati pannelli in legno che creano il percorso espositivo sui quali sono appese le fotografie.

Il senso di spaesamento, dato dalla nuova morfologia del luogo, aumenta mentre segue la visione delle prime serie di foto.
Non c’è una storia, un contesto facilmente leggibile da seguire: è quasi un’ant ologica della produzione dell’artista: still life detournato, ritratti, staged. La proposta è ricca e nello stesso tempo eclettica.A tratti sembrano foto da magazine, quasi patinate, impeccabilmente realizzate.

Composizione di arance in modalità pac-man con dei filamenti in bocca, musicassetta di musica satanica dei Von (gruppo americano black metal seminale per il rock scandinavo), primo piano di due teste da dietro dove i capelli lunghi del soggetto femminile diventano extension per la nuca maschile, fragole come atolli in un mare di latte, arti che si stendono in verticale, ritratto di un neonato con la piccola mano sul cuore.
Rodland è interessato all’idea del double-take: l’immagine non deve essere tale da permettere all’osservatore di abbandonarla come un già visto, deve essere ingaggiata a realizzare uno scarto visivo e di senso che costringa l’osservatore a fermarsi o a ritornare per riflettere sull’ambiguità dell’ oggetto-soggetto comune rappresentato: «Defamiliarise and disrupt the realm of the everyday».

Il Baretto gira negli spazi, tocca il legno dell’installazione, percorre le anse create dove immagini in formato più grande sono appese: Drunken Man (2014) un vichingo generosamente panzuto sostenuto da quattro braccia femminili, quasi come fosse rinchiuso nello spazio intimo di una sauna.
Al piano superiore continua il percorso: immagini eleganti e rigorose anche in bianco e nero dichiaratamente analogiche, un insetto appoggiato a riposare su un fazzoletto bianco, la statua di Beethoven a Brooklyn.
C’è anche spazio per i video, sono tre programmati a rotazione fino al termine dell’esposizione: The Exorcism of Mother Teresa (2004), Heart All This & Dogg (2004) e I Am Linkola (2007).
Nella piccola stanza buia proietta l’immagine di un paesaggio nordico al tramonto, la fissità dell’immagine per secondi viene rotta dal volo di un volatile che parte dal cielo per scomparire alla fine del frame. È l’inizio del movimento, avvolte in beat elettronici si alternano immagini di una mercedes nera, una ragazza dai capelli lunghi e un mazzo di carte; immagini in forma di danza e ritorni di figure a sollecitare l’inconscio dell’osservatore. È il primo video della serie intitolato I Am Linkola del 2007.

Movimento, intervallo e temporalità sono svolti con il medum video, una ricerca ulteriore per scandagliare il reale, per creare vertigini. Il senso del video è compiuto, le visioni scorrono in sequenza creando la storia anche se i significati sono simbolici e sotterranei.
Le immagini appese però sono più potenti perché la regia del movimento la esegue l’osservatore con il suo deambulare costruendo un loop in soggettiva: «We’re all to some degree a result of how we are seen, held and touched», come scrive Rodland.