Le immagini di Andreas Gursky sono caratterizzate da dimensioni monumentali, piani schiacciati e bidimensionali, composizioni oscillanti tra il minimalismo e l’affollamento caotico, ripetizione di elementi e di architetture, impressionante ricchezza di dettagli, eliminazione dell’anedottica, colori saturi ed elaborazione digitale.
La scelta di utilizzare formati giganteschi nasce dalla necessità di Gursky di coinvolgere gli spettatori, di farli immergere totalmente all’interno dell’immagine fotografica, per leggerne tutti i dettagli. Come gli artisti rinascimentali, Gursky si confronta con le dimensioni della parete. Se nel Rinascimento però, con l’utilizzo della prospettiva centrale, allo spettatore era affidata una stabile posizione e un punto di vista ben preciso esterno all’opera, tramite i quali poteva contemplare e dominare uno spazio unitario e razionalmente ordinato, le immagini di Gursky invece, con il loro appiattimento bidimensionale, provocano nello spettatore una sorta di cortocircuito spiazzante.

La visione delle sue opere, infatti, attira e respinge, coinvolge e confonde nello stesso tempo: a uno sguardo da lontano, i grandi formati di Gursky sembrano delle immense tele di colore, tendenti all’astratto; a uno sguardo più ravvicinato si colgono sterminati dettagli, realistici e minuziosi, inesauribili da guardare. Osservate a distanza, le immagini appaiono come strutture grafiche ordinate; avvicinandosi, si rivelano invece una coacervo sovrabbondante e caotico di segni e di oggetti. Tutto ciò provoca nello spettatore un processo di straniamento. Le immagini di Gursky non hanno un centro e dei margini, ma seguono delle trame più o meno omogenee; difficile cogliere uno spazio all’interno del quale orientarsi e seguire un percorso. Le sue fotografie creano piuttosto dei micro-mondi, o meglio, degli ultra-mondi, delle immagini globali che racchiudono un unico universo, un microcosmo costruito a partire dall’assemblaggio seriale di elementi individuali.

Guardando una fotografia come “99 cent”, si potrebbe pensare a una rielaborazione, in chiave contemporanea, del sublime romantico. Se quest’ultimo, nelle diverse accezioni di sublime matematico e sublime dinamico, incuteva terrore perché generava nello spettatore un senso di impotenza e di finitudine, in questa fotografia si manifesta come disagio, incapacità di dominare la mole insostenibile dei dettagli, che emergono soprattutto a uno sguardo ravvicinato. Ciò che attenua questo disagio è la capacità compositiva e formale di Gursky, che permette una certa visione d’insieme, per quanto sfuggente. La sensazione resta comunque di impotenza, acuita dal fatto che lo sguardo non trova vie di uscita: persino sul soffitto si riflettono i bagliori multicromatici delle merci esposte. Queste sono nello stesso tempo natura morta e architettura, dando vita a uno spazio in cui le figure umane sono a stenti visibili, annaspanti nel mare variopinto e, nello stesso tempo claustrofobico, degli oggetti. La tecnica utilizzata, che compone come in un collage vari pezzi ottenuti da più scatti, è funzionale al messaggio dell’opera. Grazie a essa, infatti, l’autore ottiene la perfetta messa a fuoco di ogni particolare e la visione multioculare, dispositivi che amplificano il senso di straniamento nei confronti dell’immagine. Se la prospettiva centrale ordinava il mondo rinascimentale e classico, se la distorsione e la bidimensionalità dello spazio, proprie delle avanguardie, hanno evidenziato l’artificiosità e illusorietà di quell’ordine, questa nuova disposizione spaziale forse è quella che meglio definisce la multiforme e inafferrabile condizione dell’uomo contemporaneo, fagocitato dalla moltitudine seriale, caotica e ordinata al tempo stesso.

Le foto di Gursky, presentate in dimensioni inconsuete, in qualche caso ciclopiche, mettono in gioco direttamente il tema della fruizione occidentale dell’opera d’arte, che si è costruita sulla dialettica della doppia visione, quella da lontano e quella da vicino. La visione da lontano trasforma la rappresentazione pittorica in illusione; da vicino, invece, lo sguardo ci mette in presenza della materialità sensibile dei mezzi pittorici, del caos delle pennellate, dei grumi, dei graffi, degli schizzi. A distanza, l‟immagine produce un effetto di realtà; da vicino le forme si fanno via via sempre più astratte e incomprensibili. Il dispositivo tradizionale della rappresentazione, fondato sull’illusione mimetica, vuole che un quadro sia fruito ad una certa distanza. Una volta valicato questo limite, la vicinanza al quadro mette la visione in scacco: l’accesso al dettaglio corrisponde all’annullamento della visibilità, dove la materia risulta staccata dalla forma; la realtà perde la sua solidità, la sua consistenza, divenendo macchia indistinta. Se con la visione a distanza, la pittura si fa immagine, da vicino l’immagine ridiventa pittura, opaca materia. Per tenere insieme forma e materia, lo sguardo deve continuamente fare avanti e indietro, ed è su questa oscillazione che si è costruita la percezione artistica nel corso dei secoli.
Osserviamo ora la serie di Bangkok. In questo caso, la visione da lontano produce gigantesche forme astratte, costituite da innumerevoli macchie di colore, che la percezione, tuttavia, riesce a tenere insieme in modo unitario. Avvicinando lo sguardo, però, il dettaglio non perde, ma acquista forma. Quella degli oggetti più disparati, rifiuti galleggianti che inquinano le acque del fiume Chao Phraya, che attraversa Bangkok e ne raccoglie le tracce. Anche in questo caso la visione si gioca sulla dialettica lontano – vicino, ma l’effetto è opposto. Solo a uno sguardo ravvicinato, la realtà riacquista forma, solidità e consistenza, sebbene molteplice e frantumata in una miriade di dettagli, tra i quali la visione annaspa, impossibilitata a ricombinarli in una forma unitaria e definita, perché non appena lo sguardo si allontana, i dettagli svaniscono, dissolvendosi in forme astratte e fluide. L’unità dell’immagine e della forma, percepibile solo da uno sguardo distanziato, paga il prezzo del farsi opaco del segno, del rarefarsi della realtà riconoscibile in macchie indistinte di colore e di luce, che l’occhio contempla, ben consapevole però di non poter mai dominare del tutto, perché basterebbe fare due passi in avanti per sprofondare nel microcosmo inarginabile che quell’immagine racchiude.