Il surrealismo (storico e attuale) nasce da una constatazione: la realtà ci appare insufficiente, anzi più precisamente ciò che appare inadeguato è la “realtà della rappresentazione”, cioè la rappresentazione cosiddetta realista. Se fotografo una stanza la rappresentazione mi restituisce pareti, mobili, oggetti, persone da una particolare prospettiva. Noi però non abitiamo quella stanza, ma un’altra, fatta da quelle pareti e da quegli oggetti, che ricopriamo, segretamente a noi stessi, con i nostri sogni, le nostre visioni, emozioni, vissuti, desideri, paure, storie, ricordi e così via. Così che la prima rappresentazione pare al surrealista povera fino all’infedeltà perché mostra sì la stanza, ma senza ciò che la rende davvero ciò che è, la nostra stanza. Da qui il tentativo, con sovrapposizioni o irruzioni incongrue, oniriche o semplicemente seriali, di alterare la rappresentazione realista rompendone l’unità di tempo e luogo e rendendoli fluidi, sussultori, comprensivi, alterati. Lo straniamento – l’inquietudine, il perturbamento, il dubbio radicale – è quindi il mezzo; una maggiore fedeltà della rappresentazione alla “realtà” (cioè alla sur-realtà) è il fine.

(Ci sarebbe da constatare qui quanto sia lontana questa premessa dai tanti giochini di sovrapposizione e coincidenza visiva di gran moda nella street-photography, dai tanti “ohhh” di blando stupore e di sicuri like per visioni che tutto sono tranne che perturbanti, semmai consolatorie fino alla freddura. “Guarda Arturo! Un uomo con la testa di palloncino! Ah che bizzarra a volte la vita. Dai rimettiamoci al lavoro, ma col sorriso”. Dall’assurdo al curioso non pare un gran passo avanti…).

Con queste idee nella testa, il Baretto è andato in trasferta a Torino per visitare la prima mostra antologica in Italia dell’artista americana Sandy Skoglund (1946). Tra i pionieri della staged photography, Skoglund costruisce meticolosamente la scena da fotografare utilizzando vari materiali, dai cucchiai in plastica al cibo. Gli ambienti che crea sono caratterizzati da un’atmosfera onirica di grande potenza evocativa. Già dalla prima sala dell’esposizione si avverte una sorta di straniamento: nelle immagini esposte compaiono oggetti ordinari che nella ripetizione seriale, assieme alle tinte monocromatiche dello sfondo, creano in chi osserva una sorta di inquietudine, amplificata dal fatto che alcuni oggetti presenti nelle foto germinano anche nella stanza come oggetti reali, creando una sorta di cortocircuito tra il dentro e il fuori dell’immagine.

Sono le sculture di gatti radioattivi dell’opera Radioactive Cats (1980) a occupare il centro della stanza, ricreando lo spaesamento dell’immagine nella realtà. Il percorso continua sulla stessa tonalità emotiva: la presenza di sculture di animali dai colori acidi e decisi appare sempre più imponente come in Fox Games del 1989, in cui la sala di un ristorante resa totalmente nelle tonalità della scala dei grigi è invasa da innumerevoli volpi di colore rosso sgargiante, mentre né il cameriere né i clienti sembrano accorgersi di nulla. Probabilmente quelle volpi, come tutti gli altri animali presenti nelle sue immagini, hanno a che fare sia con la parte inconscia degli esseri umani presenti sulla scena, sia con quella degli stessi fruitori. Stessa invasione di animali, ma questa volta di scoiattoli neri, appare in Gathering Paradise del 1991: questa volta a essere invasa è una casa della classe media americana.

Proseguendo la visita, si resta nuovamente spiazzati dall’utilizzo non convenzionale del cibo, che ricopre interamente tutto ciò che appare nelle fotografie, siano esse persone o oggetti inanimati. Anche queste immagini suscitano una forte reazione emotiva nell’osservatore. Emblematica è l’immagine Walking on Eggshells del 1997, in cui due donne nude di spalle si trovano in una strana stanza da bagno il cui pavimento è ricoperto interamente da uova e infestato di serpenti.

Ci si imbatte poi nelle sue ultime opere, in cui il lavoro manuale viene ibridato con quello digitale, producendo immagini complesse come Winter (2018) che ha richiesto dieci anni di incubazione e che viene presentata per la prima volta al pubblico proprio in questa mostra. L’esposizione si conclude con alcune serie relative agli esordi dell’artista, che presentavano già il tema della serialità e della ripetizione come operazione di straniamento.

Nel complesso, dopo la visione di circa cento immagini dell’artista americana, si esce dalla mostra frastornati, con gli occhi ancora pieni di strani animali dai colori acidi, pronti a sbucare da ogni angolo della città.

La mostra Sandy Skoglund. Visioni ibride a cura di Germano Celant è visitabile fino al 24 marzo 2019 presso Camera – Centro italiano per la fotografia, via delle Rosine 18, Torino.