Il Baretto ritorna all’Osservatorio della Fondazione Prada in Galleria Vittorio Emanuele, al quarto quinto piano in fianco alla premiata pasticceria Marchesi. In mostra SURROGATI. UN AMORE IDEALE, fino al 22 luglio. Due artiste, Jamie Diamond ed Elena Dorfman, affrontano il tema dei legami familiari: quando la relazione diventa distopica e il sentimento, al posto delle persone, incontra oggetti trasformati dalla forza disperata dell’amore in entità emotive.

Con il progetto “Forever Mother” (2012 – 2018) Jamie Diamond indaga il rapporto che, a causa dell’infertilità o della perdità di un figlio durante la gravidanza, alcune donne sviluppano con bambole artificiali come surrogati del figlio mancante. Si chiamano “Reborn”: bambole distrutte e poi ricostruite fino a somigliare il più possibile a un piccolo essere umano: pelle, temperatura corporea, ciglia, espressioni. La nicchia di mercato delle bambole artificiali Reborn è diffusa soprattutto nel mondo anglosassone, con prezzi dai 300 dollari in su in relazione alla qualità dei materiali usati. Provate ad andare su reborn.com per avere un’idea. Le espressioni dei visi, i particolari delle ciglia, gli angoli della bocca mostruosamente reali e ordinari, le smorfie e occhi sgranati: tutto contribuisce a simulare con la realtà più umorale di un bambino. Il mercato è alimentato da una comunità di artiste, artigiane collezioniste chiamate “Reborners”, che destrutturano e ricompongono i pezzi delle bambole. Per questo motivo il prodotto finito viene qualificato come Reborn: rinate per vivere.

Jamie Diamond si è avvicinata alla comunità di reborners diventando lei stessa una costruttrice di bambole. Ha creato una propria nursery (un luogo di produzione di bambole) chiamata “Bitten Apple Nursery”. Racconta: «Working with the Reborn community has allowed me to explore the grey area between reality and artifice where relationships are constructed with inanimate objects, between human and doll, artist and artwork, uncanny and real». Diamond fotografa le bambole nella sua stanza con una fotocamera di grande formato prima di metterle in “adozione” su Ebay: «I have been engaged with this community now for four years and while working and learning from these women, I’ve become fascinated by the fiction and performance at the core of their practice and the art making that supports their fantasy».

Con il secondo progetto in esposizione, “I Promise to Be a Good Mother” (2007 – 2012), Jamie Diamond si mette nei panni della propria madre alle prese con la sua bambola Reborn: l’ispirazione e il nome del progetto derivano infatti da un diario che l’artista teneva da bambina. Inizialmente impostato come una messa in scena di alcuni ricordi della sua infanzia, il progetto si è in seguito evoluto in un’esplorazione della complessità degli stereotipi sociali e delle convenzioni culturali che circondano e danno forma alle relazioni tra madre e figlio, contribuendo al contempo a immaginarne una rappresentazione idealizzata o artistica.

“Still Lovers” (2001-2004) è invece il progetto con il quale l’artista Elena Dorfman ci conduce alla scoperta delle relazioni che alcune persone sviluppano con corpi artificiali come fossero persone reali. Non bambole gonfiabili o oggetti sessuali, ma corpi, oggetti sentimentali da accudire, mettere in posa, condividere e accarezzate. «My ambition is never to judge, but to allow the inhabitants of this secret world to share their daily lives with me. In familiar surroundings of their homes, I watch the scenes of domestic life unfold, the artist explains»

Entrati nella prima sala dell’Osservatorio, il visitatore è quindi accolto da una serie di still life di Reborn, bambole con le espressioni piu sconcertanti, pezzi umani usciti da un film dell’orrore, appoggiati a uno sfondo asettico che non permette all’osservatore via d’uscita allo sguardo. Il Baretto si domanda come questi simulacri possano entrare nella vità quotidiana e nella relazione con un essere umano: la realtà a volte è sgradevole e queste Reborn sanno essere molto reali. Lo spazio del quarto piano appare tuttavia stranamente vuoto, come se la curatela si fosse risparmiata molto nel mostrare immagini, riservandole al piano superiore. Forse manca qualcosa nell’installazione: un vuoto che disturba, quando non riesce ad essere riempito dal perturbante (Das Unheimliche).

Il quinto piano con vista sui tetti è già di per sé una vittoria dello sguardo, specie quando c’è il sole e qui l’istallazione si fa densa: ora i soggetti umani e inanimati, le bambole Reborn di Jamie Diamond e i corpi adulti della Dorfman si animano nella rappresentazione che li vede agire accanto al quotidiano dei loro proprietari e amanti. Le immagini sono patinate, i colori tirati a lucido, i soggetti in posa non sembrano colti nella loro vita reale, potrebbero persino essere dei modelli: più reale la finzione della plastica di quella della carne (per quanto entrambi siano pixel). Il livello estetizzante delle immagini stile Vogue confonde un po’ l’osservatore sull’intento della mostra: non è chiaro se l’istallazione voglia documentare raccontando una relazione o semplicemente voglia portarci a passeggio tra le fotografie appese alle pareti. Il tema è senza dubbio interessante, le artiste hanno svolto un lavoro antropologico inserendosi nelle subculture documentate dalle immagini, passando anni a contatto con una realtà diversa dall’ordinario senza giudicare, ma semplicemente osservando e osservandosi, diventando esse stesse, la Diamond in particolare, ciò che andavano documentando: produttrici di bambole e fruitrici dell’oggetto umanizzato, personaggi dei propri racconti.

La curatela però, ma questa è solo un’impressione del Baretto, sembra si sia concentrata sull’elemento estetizzante, sul colpo al cuore generato dalle immagini. Che sono belle, brillano da spiazzare, il perturbante è una presenza costante che rincorre lo spettatore per tutta la mostra. Manca forse l’approfondimento documentale, il gesto etnografico grazie al quale si raccontano le subculture rappresentate. Non c’è traccia nelle pose della sofferenza e dell’amore, dell’esperienza e delle relazioni che le artiste hanno costruito per realizzare il progetto. L’esibizione è anch’essa un surrogato e lo spazio sospeso crea  disagio, lo stesso senso di malessere che si prova a vedere le smorfie delle bambole.