A Failed Entertainment, libro fotografico di Alessandro Calabrese edito dal Skinnerboox, si pone sul limite della rappresentazione fotografica per porne in dubbio l’efficacia e aprirla a un diverso modo di rappresentare. A partire da un corpo di fotografie documentarie scattate a Milano, Calabrese opera con diversi tipi di intervento sia manuale che digitale: dapprima utilizzando la ricerca immagini dei motori di ricerca per individuare fotografie simili a quelle scattate, tra quelle che circolano in rete; poi stampando alcune di queste “foto gemelle” su fogli di acetato, poi sovrapposti, infine scansionandole assieme. Il risultato, dal punto di vista estetico, si presenta come una lussureggiante compresenza di forme intorno a spaventosi buchi neri che evocano a volte la pittura di Bacon, a volte Warhol spedito in orbita con un’ascensore iperveloce. Da un punto di vista concettuale l’operazione descrive in modo plastico l’attuale modalità di produzione e fruizione delle immagini nel contesto della rete, in cui ogni foto è impilata dall’algoritmo in metaforiche colonne di somiglianze che da ogni punto si diramano in tutte le direzioni possibili, per seguire le connessioni delle relazioni “in tempo reale”. Il presunto “realismo” della traccia fotografica si trova messo in dubbio da una decostruzione procedurale che pare tuttavia più efficace nel descrivere il contemporaneo e il suo effettivo funzionamento. Nello stesso tempo l’opera di Calabrese, ponendo in evidenza il rapporto di con-fusione che investe il mondo delle immagini, permette di riflettere, per differenza, sulla storia della fruizione risalendo all’indietro le sue tappe: e allora viene da ricordare come la fruizione delle immagini sia dapprima sempre limitata a un “qui e ora” singolare e magico/rituale (nella pittura ancestrale, nell’arte religiosa e fino alla nascita del museo), per diventare poi ubiqua e moltiplicata nell’epoca della riproduzione meccanica e del simulacro (all’alba del fotografico), fino al ritorno iconico e quasi-religioso attuale, nell’epoca della rete e delle sue tribù, in cui ubiquità e presenza “qui e ora” si fondono producendo un paradosso: l’oralità infinita, il tatto a distanza, la relazione (e la guerra) di tutti con tutti. E forse è proprio questo che sono le postmoderne tavole di Calabrese: nuove “icone sacre” che parlano di un reale velocissimo e immobile, che rivela il suo esser-fatto di relazione.
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