La fotografia di strada nel suo periodo d’oro, quando apparve come avanguardia e rivoluzione linguistica, aveva in sé un’idea forte: spogliarsi di tutto il sapere accumulato, delle strutture intellettuali e visive consolidate e immergersi nella città come in un oceano ribollente riportandone come da un sogno lucido dei documenti in forma di potenti istantanee. Retrocedere rispetto alle preoccupazioni formali verso un grado zero che ignorasse regole compositive, inquadrature, convenzioni e semplicemente si abbandonasse al flusso, ne diventasse parte così da quasi eliminare la differenza tra operatore e soggetto. Una sorta di operazione zen che attraverso il vuoto ottenesse il successo più completo possibile: mostrare quel flusso nella sua essenza, cioè in attimi quasi miracolosi in cui forma e contenuto coincidono, ritrovando inquadrature e composizioni “da dentro”, come ricevute.
Anche se poi, a ben vedere, quell’“essenza” consisteva in cose assai diverse tra loro, a seconda del fotografo e della sua scuola di provenienza: le “strutture intellettuali e visive consolidate” hanno il difetto di essere assai resistenti. Perché ovviamente si trattava di un programma che, come accade ai buoni programmi, conteneva una forte dose di contraddizione: l’intenzione di evitare le intenzioni è un’intenzione. (Come ha insegnato Paul Watzlawich, “sii spontaneo” è il perfetto esempio di una contraddizione che può mandarti ai matti: non si può obbligare – o obbligarsi – alla spontaneità). In questo caso, però, si trattava di una contraddizione feconda. E se i risultati accettavano orizzonti storti o corpi tagliati in cambio di una stupefacente espressività e del “senso di realtà”, della sensazione di essere lì, ciò era frutto di scelte formali consapevoli fatte di tentativi, selezioni, lungo e duro lavoro. La spontaneità non è un pranzo di gala. L’effetto di realtà non è “la realtà”, è una poetica. Cioè: la spontaneità è una finzione operativa che ha senso dentro una precisa poetica.
Non è un caso che al termine della sua avventura migliore, in un fotografo complesso come Lee Friedlander, l’autoillusione consapevole dei fotografi street di operare vere e proprie “catture di realtà allo stato selvaggio” cade del tutto e proprio quelle apparenti istantanee immerse “dentro il mondo” diventano l’occasione per una radicale inversione a U: una riflessione sul linguaggio fotografico, più che sui soggetti. Come a dire: mostriamo sempre noi stessi mostrando altro, l’immersione non è davvero un programma zen ma semmai una premessa, siamo sempre dentro e anche fuori, interni ed esterni, viviamo sul limite tra linguaggio e mondo (“mondo” è una parola, infatti) e non c’è da andare sotto l’apparenza per trovare chissà quali silenziose cose, perché ci sono solo tessuti fatti di sguardi e di cose in egual misura.
Fu uno dei tanti modi di passare nel postmodernismo. Un altro di questi modi, esaurita la metafora dell’immersione in profondità, fu il recupero della superficie fotografico/pittorica come spazio di rappresentazione consapevole (Jeff Wall); un altro ancora fu una regressione ben più radicale o post-umana che portando in primo piano il meccanismo e il suo “inconscio tecnologico” invece che il suo se-dicente proprietario e i suoi intenti estetici o psicologici, mostrava in fieri il tempo in cui le macchine e gli algoritmi dettano il tempo della conversazione e delle relazioni umane (Franco Vaccari, in opere ormai mitiche come i Viaggi minimi o le Esposizioni in tempo reale)
La street-photography ha ancora senso, oggi? Indubbiamente sì, e infatti viene praticata da molti e in molti modi. Alcuni a dire il vero piuttosto banalizzati o decorativi, alla costante ricerca della foto spettacolare o che provochi, non si sa poi perché, un blando stupore o un umorismo consolante: le foto wow, le foto ohhh…, le foto ah-ah. Altre modalità invece sono vitali e interessanti, perché non si tratta di ripetizioni del bel tempo che fu. Il progetto Identity, creato a Milano (e attualmente in svolgimento) dalla fotografa Mara Palena e curato da T14 (Matilde Scaramellini ed Elena Vaninetti) è, tra le altre cose, una di queste modalità.
In estrema sintesi funziona così: prendi una decina di ragazzini dai 10 ai 16 anni di una qualsiasi periferia (in questo caso di Milano, attraverso un lavoro di coinvolgimento di strutture che già operano nei quartieri), metti in mano a ognuno di loro una macchina fotografica analogica carica, sguinzagliali a fotografare il proprio quartiere, senza fornire prima alcuna indicazione di metodo o di approccio. Poi raccogli i rullini, stampa tutto e di nuovo assieme a loro fai un editing ragionato dei risultati al fine di produrre un libretto fotografico, una fanzine, dove alle foto associ dei brevi testi autografi. E una volta che la fanzine è impaginata e stampata, fai una festa in quartiere coinvolgendo amici e famiglie.
Sono ragazzini quindi verrebbe da evocare di nuovo quella “spontaneità ricercata e voluta” (e quindi insieme impossibile e miracolosa) che fu dei pionieri della street-photography, ma stiamo parlando di nativi digitali, persone cresciute tra strada e Youtube, formati alla fotografia da cellulare e all’immagine digitale fin da piccoli. Certo non devono liberarsi dalla regola dei terzi o dall’ossessione per il taglio dei piedi, non sono fotoamatori degli anni ’60, ma non sono per questo “ingenui” o privi di formazione. Anzi. Guardando i risultati (le tre fanzine prodotte finora nei quartieri Barona, Casoretto e Giambellino) tutto viene in mente tranne la parola “ingenuità”. Foto espressive, un racconto fatto di inquadrature taglienti e forti, interventi creativi sulle immagini, una rivendicazione orgogliosa di identità da far invidia a tanti progetti di adulti benintenzionati.
Qui si vede subito che l’antico programma street, proprio perché pretendeva di immergersi in un “altro”, denunciava come proprio punto di partenza inconsapevole un’estraneità vissuta come auto-esclusione. Estraneità che qui è saltata a pie’ pari. Ciò di cui si tratta qui non ha nulla di paternalistico e non ricorda una di quelle pavloviane denunce-del-degrado, semmai riguarda la riappropriazione del racconto di sé. Ed è interessante che ciò avvenga grazie a un “grado -1” tecnico (il ritorno dal digitale all’analogico, pur con macchine moderne come le Lomo) che permette di focalizzare l’altrimenti ovvio e invisibile: la procedura, la costruzione, il funzionamento delle immagini-prodotte-da-una-macchina. Fare un passo indietro per farne due avanti: ciò che viene visto (che si tratti di inconscio personale o tecnico) smette di agire in modo inconsapevole e torna a disposizione di chi lo vede, che se ne appropria e può usarlo come linguaggio. E quando può usarlo smette almeno in parte di esserne usato. Questo è uno dei sensi in cui l’empowerment funziona dentro Identity: non solo condividere con altri la possibilità di prendere parola, ma farlo in un confronto di pari livello col contemporaneo della fotografia relazionale e dell’espressione mediatizzata.
INFO
https://twenty14contemporary.com/IDENTITY
https://mara-palena.com/projects/
Su Instagram: #identity4inclusion
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