In mostra al Museo delle Fotografia Contemporanea dal 1 novembre 2019
Le edicole votive sono fossili di un tempo antico e testimoniano un modo antico di vivere il paesaggio, ancora improntato a una dimensione sacrale. Le immagini e le statue di santi e Madonne ancora oggi sparse sul territorio erano presenze silenziose ma importanti, che vegliavano sui campi e sulle strade, esercitando una sorta di sguardo protettivo. Questi minuscoli luoghi di devozione popolare facevano sì che la gente vivesse il territorio in modo cultuale: la posa di un fiore, una genuflessione, un segno della croce, un bacio mandato di passaggio a quella presenza sacra, erano momenti che scandivano la giornata dei contadini e degli operai che a piedi o in bicicletta percorrevano quelle strade quotidianamente. Il territorio, pertanto, si configurava come uno spazio consacrato, che chiamava i passanti a pratiche che non erano solo quelle volte all’adempimento dei propri compiti giornalieri. Gli spostamenti, i tragitti verso il luogo di lavoro o verso le usuali mete non seguivano uno svolgimento meramente orientato allo scopo ma, grazie a quelle pratiche sollecitate dal territorio, acquistavano un carattere che andava oltre la sfera materiale e terrena. E d’altra parte, tutto il rapporto con la terra, con la natura e con lo scorrere del tempo era inquadrato in questa dimensione sacra e rituale, che seguiva la scansione del calendario liturgico e delle tradizioni religiose locali.
Il progetto di lavoro
Partendo da una mappatura collettiva delle edicole votive presenti su tutto il territorio lombardo, operata grazie al contributo di decine di volontari ai quali è stata data la consegna di fotografare le edicole della propria zona e, di ognuna, “ciò che il santo vede”, cioè la porzione di paesaggio che viene inquadrata posizionando la fotocamera all’altezza degli occhi del santo, l’artista Claudio Beorchia ci regala, con il progetto di arte partecipata “Tra cielo e terra”, curato da Matteo Balduzzi, una potente e poetica riflessione sul territorio e soprattutto sul nostro rapporto con il territorio. Una riflessione su come cioè il nostro sguardo sia sempre fortemente selettivo e guidato dall’immaginario: ci muoviamo in uno spazio che già in qualche modo vediamo nella nostra “testa”, in uno spazio “mentale”, non nel senso di aleatorio o teorico, ma come insieme di mappe corporee, psichiche e di azione. In queste mappe è contenuto tutto l’apparato culturale e sociale attraverso il quale noi vediamo i luoghi, lo spazio, il territorio; apparato a sua volta estremamente vario e mutevole.
Come ha scritto il filosofo Jean-François Lyotard a proposito dei pittori da Cézanne in avanti: «Essi si sono preoccupati di far vedere ciò che fa vedere, e non ciò che è visibile». Il lavoro di Beorchia ci permette di “vedere questo presupposto del vedere”, presentandone un caso particolare: il taglio dello sguardo costituito dalle edicole votive. La visione del paesaggio, nel progetto di Beorchia, viene cioè incorniciata nella forma sacra delle edicole votive e la cornice, così configurata, conferisce alla fotografia un elemento straniante che porta la percezione oltre il contenuto. L’immagine non ci mostra solo una porzione del territorio, ma ci rimanda a come quel territorio è stato inquadrato. La cornice, insomma, ci racconta non tanto qualcosa che è stato visto, ma un modo di vedere, un modo di configurare lo sguardo che è diverso da quello moderno, tipicamente iper-funzionale, e che si allontana dalla geometria ortogonale della visione razionale.
Lo sguardo del santo
La cosa è immediatamente evidente già dal fatto che moltissime di queste vedute sono verticali. Si è mai visto un lavoro sul territorio fatto di foto verticali? Per l’occhio moderno non avrebbe alcun senso. Per il modo di vedere e vivere del “moderno”, il territorio è sinonimo di orizzontalità, è uno spazio piano, omogeneo e continuo che si estende in larghezza e profondità ed è misurabile, calcolabile, percorribile e disponibile. È un piano continuo fatto di punti in relazione tra di loro attraverso linee che si stendono sul piano stesso, che individuano faglie e linee di forza o di tensione di carattere economico/sociale, storico e immanente.
È un “modo di vedere” che abbiamo assorbito talmente bene da sembrarci naturale. Anche la fotografia degli ultimi decenni che ha esplorato il territorio ha privilegiato una visione orizzontale, perché è quella più funzionale all’analisi dello spazio e alle sue dinamiche socio-economiche. Il fatto che le persone che hanno collaborato al lavoro siano state costrette a fotografare da un punto di vista non libero, ma obbligato “dagli occhi del santo”, ha significato prima di tutto impedire loro di cercare il cliché paesaggistico, il pittoresco, lo stereotipo, ripetendo schemi e modelli ovvi e scontati.
La realtà è che il rapporto tra soggetto e paesaggio si è radicalmente modificato nel tempo, in primo luogo con l’espulsione della dimensione del sacro dalla vita quotidiana e con la sostituzione delle antiche pratiche di culto con nuove ritualità, proprie della civiltà industriale e del consumo di massa. Le modalità di vivere il territorio si sono adeguate sempre più a una finalità strumentale, il territorio stesso è concepito, ripartito e assoggettato a criteri di produzione e distribuzione di merci e servizi. Le immagini religiose nelle edicole sono diventate sempre più invisibili, inghiottite dall’urbanizzazione, e gli occhi hanno smesso di posarsi su di loro per far entrare il sovrannaturale nella vita quotidiana. Il cielo si è allontanato dalla terra e lo sguardo è stato soggiogato a una vettorialità diretta e operativa, incapace di lasciarsi coinvolgere dal richiamo di quelle presenze discrete ai bordi delle strade.
Metafore dello spazio
Il lavoro di Beorchia fa quindi un passo indietro e restituisce un modo di vedere e vivere del tutto diverso, in cui il territorio quasi nemmeno esiste, perché i suoi punti sono irrelati e legati semmai tra loro da un nesso di somiglianza: tutti sono connessi in verticale, ognuno per sé, a una dimensione celeste. Mettere ad ogni angolo di strada un santo significa del resto correlare ogni punto direttamente con una dimensione sovrasensibile e invisibile da cui dipende e a cui rimanda come sua emanazione, prima ancora che pensare a come percorrere linee che vanno da un angolo a un altro. Muoversi nel territorio, in questa dimensione, significa solo transitare da un punto di verticalità a un altro, lo spazio in mezzo è solo un vuoto di senso. Si tratta di un diverso orientamento nello spazio e di una diversa considerazione dei punti di tensione e delle coordinate che danno forma al vedere, al muoversi, all’essere, che, in questa concezione, sono pensati sempre sub specie aeternitatis.
La forma del ritaglio operato sulle vedute dall’artista è quindi una metafora spaziale che allude efficacemente al fatto che ogni cultura vede in modo diverso, secondo tagli e occhiali propri. Beorchia, unendo in uno strano ibrido lo sguardo verticale antico e il territorio orizzontale contemporaneo, ci sta dicendo: la religiosità popolare vedeva il mondo “a forma di” edicola votiva. E ci spinge a porre la vera domanda: e noi, allora, come vediamo? Perché “come vedi” e “cosa vedi” non sono due cose separate, ma sono connesse in modi spesso inaspettati.
E allora forse risalta ancora di più lo scarto visivo tra la forma della cornice e il territorio che viene effettivamente inquadrato, fatto di parcheggi, strade statali, tracce di antichità storiche italiane, pietre miliari e villette, zone residenziali recintate e condomini, supermercati, vedute alpine e di campagna arcaica, monumenti modernisti pagati dall’assessorato, piazze pedonalizzate in ciottoli finta vecchia lombardia e fiere della salamella; questo territorio non è più lo spazio moderno e razionale, è semmai il territorio affastellato, multipiano, abusivo, non pianificato, incongruo, iperproduttivo, diffuso, assurdo e leggermente comico della sterminata e ubiqua suburbia planetaria in cui vive la piccolissima borghesia globale che anche noi siamo.
Scrivi un commento