Di ritorno nel luogo in cui sono cresciuto, tutto è come allora ma ogni cosa è cambiata.

«Baggio è un quartiere periferico di Milano. Ci sono arrivato con i miei genitori alla fine degli anni ’60, quando avevo 4 anni, e me ne sono andato via per la mia strada all’inizio degli anni ‘90. Nell’estate del 2017 mio padre, che a 90 anni vive da solo nella stessa casa in cui sono cresciuto, si è ammalato e non potendo lasciarlo da solo in estate, sono tornato ad abitare con lui per qualche tempo. I miei compiti di badante mi lasciavano in realtà molto tempo libero, ma non potendo allontanarmi troppo da casa ho iniziato a trascorrere alcune ore al giorno in giro per il quartiere a fare fotografie.

Il quartiere, Baggio, è un luogo ricco di storia e di cronaca. Cresciuto nel corso dell’ultimo secolo da piccolo borgo medievale contadino a quartiere grande e popoloso dell’estrema periferia milanese, ha assorbito via via diverse ondate di immigrazione: prima dalle zone povere del Nord Italia, a inizio Novecento, poi gli sfollati dai quartieri popolari del centro cittadino rasi al suolo e ristrutturati dopo la Seconda Guerra Mondiale (tra cui mio padre), fino alla massiccia migrazione dal Sud e infine dagli altri continenti. Tutto questo è visibile nella sua struttura, nell’incunearsi reciproco di città e resti di campagna recuperata o abbandonata, nella forma delle abitazioni in cui si può leggere come su un libro di storia il decennio di costruzione. E anche se negli anni ‘60 e ‘70 il quartiere era noto soprattutto per essere un concentrato di malavita organizzata, droga e marginalità, chi lo ha abitato ha conosciuto anche il ricchissimo attivismo politico, sociale e culturale che l’ha sempre attraversato. Insomma: era un luogo perfetto per crescere.

Percorrendolo in lungo e in largo in un agosto deserto sulle tracce di tutti coloro che avevo conosciuto e non c’erano più, avendo lasciato dietro di sé solo ricordi in forma di resti o scarti abbandonati, perduti, di persone lontane o che si negano, mi sono reso conto in fretta che le mie fotografie stavano seguendo una traccia coerente, inaspettata e del tutto personale, che aveva certo a che fare col quartiere, con le sue stratificazioni urbane e di vita, ma anche con me stesso, così che quelle case e quei prati stavano mostrando un mio autoritratto per interposto quartiere. E in parte, forse, illustravano anche un sentimento più generale, che non riguardava solo il mio tempo perduto, la memoria o l’oblio, ma anche la perdita dell’innocenza e di noi stessi, l’utopia e la sconfitta, come un sogno che non vuole andarsene del tutto; un sentimento in cui altri avrebbero potuto rispecchiarsi e conoscersi.

(“Summer of ’69” è il titolo di una canzone di Brian Adams che dice:
I guess nothing can last forever, forever, no.
And now the times are changing
look at everything that’s come and gone
sometimes when I play that old six-string
I think about you, wonder what went wrong.
Il titolo compare in una delle fotografie, scritto su un foglietto abbandonato in un prato, probabilmente una scaletta per un concerto all’aperto. Il 1969 è l’anno della mia prima estate a Baggio e, in onore di questa mirabolante coincidenza, l’ho messo a titolo anche di questo piccolo lavoro fotografico)».

GB