Nel 2004 Stephen Gill si trasferisce dall’East End londinese a Österlen, una città nel sud della Svezia, di cui la moglie Lena è originaria. Dall’urbe concentrata e grigia alla natura verde e boschiva. Il fotografo esplora i sentieri della foresta, va in kayak lungo il fiume, mappa lo spazio indagando il perimetro della sua nuova vita. Chi gli sta intorno? E come fare per smascherarlo? Ci sono tracce ovunque. La foresta è rigogliosa, quasi incantata per la presenza sussurrata dei suoi abitanti. Gufi, cinghiali, alci, la stessa flora: solo rumori, impronte sul terreno, passaggi furtivi.

Gill si sente osservato e ricorda quando, all’età di tredici anni, seduto alla finestra del bagno della casa dei suoi genitori a Bristol, attendeva in silenzio il momento buono: aveva collocato una fotocamera in giardino collegata a un cavo di dieci metri per poter rubare immagini degli uccelli. Il suo primo progetto fotografico. Ritorna forte in lui il sentimento dell’altro da sé, da scoprire non come presenza umana/urbana rumorosa, ma come dimensione sacrale da osservare con rispetto.

Questo il punto: quale osservazione può essere tale, se lo sguardo e la presenza del fotografo influenzano l’oggetto dell’osservazione? Impossibile scovare gli abitanti del luogo nelle loro manifestazioni diurne, quando è proprio la sua presenza che li fa scomparire. Gill cerca un dialogo quasi impossibile, da risolvere tecnicamente: con un piano.

Per indagare occorre scomparire. Il fotografo piazza nel sottobosco una serie di camere equipaggiate con sensori capaci di cogliere il movimento, così che ogni spostamento rilevato inneschi lo scatto e contemporaneamente un flash a infrarossi (fuori dallo spettro visuale degli animali). «The idea of stepping back as the author of images, to give space for chance, and to encourage the subject to step forward».

Non basta dunque perlustrare lo spazio selvaggio al di fuori dei sentieri battuti, occorre fare un passo indietro per permettere alla foresta di essere se stessa. Qual è il risultato? Presenze che si manifestano nei passaggi notturni: gufi, linci, alci, cinghiali, alberi, fogliami, investiti da una luce irreale, si affacciano all’obiettivo delle camere. Occhi rossi osservano curiosi, colti nella quotidianità notturna mentre girano indisturbati.

Sono in tutti i sensi immagini rubate: «As time went on I started to think, if I were a deer where would I drink from, or if an owl where would I prefer to perch, and positioned cameras in such places. I was already composing the rectangular view in my mind’s eye – even though the nocturnal animals were absent – imagining they were there».

Il flash a raggi infrarossi illumina lo spazio della rappresentazione avvolgendo gli animali di luce surreale: realtà sospesa e sorpresa, misteric. Gli animali sono rappresentati nella dimensione naturale notturna, ma anche sorpresi quando posano davanti al flash, che li costringe a scrutarci, quasi a chiedere a chi sfoglia il libro: perché mi stai guardando?

L’autore, che fa un passo indietro a favore dell’autonomia della camera durante la cattura dell’immagine, riprende prepotentemente il controllo nella realizzazione del libro. La stampa è curatissima, Gill integra, nei liquidi per le emulsioni, particolari pigmenti naturali raccolti nella foresta. Sfogliando le pagine del libro cresce la meraviglia, come se fossimo di fronte a stampe antiche, polverose, ritrovate in qualche soffitta.

Tra gli animali selvaggi che si aggirano nel libro compare il viso di un bambino (forse il figlio) e delle mani mentre colgono bacche nel sottobosco.

Quindi il nostro consiglio di oggi è: Stephen Gill, Night procession

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