Nel giugno del 2015 L’Artiere ha pubblicato “Landscape Materials“, un coraggioso quanto insolito libro fotografico, che raccoglie gli scatti di Edoardo Hahn, con testi di Steve Bisson (direttore di Urbanautica) e Nicola Braghieri.

Le fotografie sono state realizzate da Hahn in California, nel 2013, nel territorio compreso tra Oakland e Santa Rosa, di cui l’autore conservava suggestioni e rimandi visivi tratti da film, serie TV, letteratura e musica ispirati a quei luoghi.

Già dopo aver sfogliato le primissime pagine di Landscape Materials, il lettore si rende conto di non essere alle prese con un normale libro di fotografia. Le immagini, infatti, sono tutte di formato quadrato, con gli angoli arrotondati, e sono di varia grandezza. Ma il dettaglio che più impressiona la lettura, lasciando lo spettatore quasi disorientato, è l’impaginazione grafica: le fotografie sono collocate in modo instabile, quasi casuale, nelle pagine; alcune di esse occupano il bordo o l’angolo del foglio e sembrano addirittura sconfinare e invadere lo spazio esterno. Sia le immagini che l’impaginazione di “Landscape Materials” puntano l’attenzione sull’artificiosità dell’inquadratura, sulla costruzione della tradizionale immagine di paesaggio come astrazione, razionalizzazione e composizione unitaria di una visione che in realtà è frammentata e complessa.

Cos’è l’inquadratura? La selezione di una porzione di mondo che esclude e lascia fuori tutto il resto. Ma come si fa a stabilire quando il taglio è congruo? Quando il “campo” acquista un significato autonomo rispetto al “fuori campo”? Cosa rende un’inquadratura compiuta?
In realtà una fotografia non è altro che una fenditura del mondo. Composizioni, centralità, simmetrie, sono solo razionalizzazioni e tentativi di ordinare una percezione caotica e frammentata, dove non ci sono un centro e dei margini. Ecco che l’impaginazione di “Landscape Materials” mette in discussione proprio l’idea di centro, di margini, di cornice, di contesto uniforme di fruizione, richiamando l’attenzione sull’artificiosità e la parzialità di ogni inquadratura, non più in grado di dare una visione ordinata e unitaria del paesaggio naturale ed urbano.

Quest’ultimo è ridotto a un fluttuare di frammenti che esibiscono l’arbitrarietà del taglio e della selezione. Può un tale frammento detenere una posizione stabile all’interno di un contesto espositivo? Può ancora darsi un rapporto di gerarchia tra l’immagine e il supporto che la contiene, tra il luogo della significazione e lo spazio bianco della pagina? Per queste ragioni l’arbitrarietà esibita dagli scatti non è lasciata all’esclusiva pertinenza dello sguardo e del prelievo, ma prosegue nelle modalità di presentazione. Il margine bianco che circonda una fotografia generalmente svolge la funzione di cornice, cioè di spazio soglia, confine che separa l’immagine dal contesto visivo ordinario. L’impaginazione grafica di Landscape Materials dichiara l’impossibilità di stabilire questi confini, di delimitare in modo stabile un luogo di significazione. Le fotografie costituiscono un insieme di frammenti, presentati inoltre in modo disarticolato e caotico: una frammentarietà al quadrato. Il quadrato, d’altra parte, impreciso perché privato dell’ortogonalità degli angoli retti, è la forma data a ogni frammento.

L’insistere sul tema dell’inquadratura è reso evidente dal ricorrere, nelle immagini, di vari dispositivi di inquadramento: porte, finestre, cancelli, forme quadrate e rettangolari varie. Rarississime le prospettive centrali, che presuppongono un punto di vista unitario. Più ricorrenti, invece, gli scorci, i dettagli di muri e facciate che lasciano fuori campo la possibilità di una visione d’insieme e di un riconoscimento del referente. Le immagini, pertanto, oltre a quello di circoscrivere, rinunciano anche allo scopo di descrivere. Pur conservando la propria natura di traccia di una realtà che hanno “visto”, dichiarano l’impossibilità di renderla riconoscibile e connessa all’oggetto, l’impossibilità, cioè, di cominciare e portare avanti un racconto. Il libro ha sì un ritmo, ma è più che altro quello di un respiro sincopato e irregolare o, come dichiara lo stesso Hahn in un’intervista, di una canzone psichedelica dall’andamento allucinato, una sorta di “trip visivo”.

Il paesaggio della California del cinema, della narrativa e della musica rimane un mito lontano, evanescente, inafferrabile. Non c’è quasi nulla, in queste fotografie, delle grandi e interminabili strade assolate e vuote e degli sconfinati spazi californiani. In Landscape materials lo spazio si restringe, fino al dettaglio anonimo, e si scompone, restituendo solo sparute suggestioni riconducibili a un immaginario on the road.

A voler essere ottimisti, si può pensare che l’autore voglia lasciare all’immaginazione dello spettatore la possibilità di ricostruire il fuori campo, di trovare una visione d’insieme che non ripercorra tradizionali stereotipi, ma salvaguardi la complessità e la contraddittorietà di questi paesaggi postmoderni. Uno spettatore a cui forse non si accredita più un posto centrale, ma si riconosce un ruolo più attivo. Non quello di ricomporre il puzzle con i frammenti, perché queste immagini non sono finalizzate a ricostruire un disegno unitario, ma a fluttuarvi dentro, a sostenere l’impatto di pagine per lo più bianche e vuote, all’interno delle quali i fotogrammi sfuggono a ogni tentativo di ordine e permettono solo una rappresentazione instabile e sconnessa non solo del mondo in cui viviamo, ma anche dell’immaginario che costruiamo su di esso.

Tuttavia occorre riportare, alla fine, anche un’impressione epidermica, forse soggettiva o forse condivisibile, di chi scrive, che avendo sfogliato il libro si è trovato a pensare, prima ancora di sapere dove sono state scattate le foto: «Stati Uniti!». Un’identificazione alquanto vaga e inutilizzabile in un’infinità di contesti, certamente, ma tuttavia reale. Ed essendo nutrito di cultura fotografica, ha anche sentito un sapore, un rimando a certi fotografi, qui Eggleston, là Leiter, altri ancora… Suggestioni, proiezioni?

Forse più che all’immaginario – nel libro non c’è proprio modo di ritrovare il tipico immaginario californiano – bisogna rivolgersi alla cultura materiale. “Landscape materials” è del resto il modo in cui vengono chiamate i materiali che servono ad allestire spazi pubblici e privati all’aperto, giardini, parchi e così via – dall’erba finta alle rocce. Sfogliando il libro l’osservatore attento finirà per notare allora certi particolari: il modo in cui sono costruiti gli oggetti che si vedono nelle foto, il modo in cui sono fatte ad esempio le palizzate o i parchimetri o i marciapiedi e così via; modi “tipicamente USA”, che per averli visti in mille foto o dal vivo fanno scattare il riconoscimento: «Questo l’ho già visto». La gestalt visiva è la modalità operativa con cui le percezioni formate ci si offrono: non abbiamo altro modo di percepire infatti, e fuori da queste “forme” non c’è intuizione ineffabile o accumulazione di esperienze ma c’è caos e arbitrarietà: questo pare dire subito il libro. Ma ecco poi che gli accenni alla cultura materiale forse allargano il discorso a un campo più tattile che continua a funzionare oltre il visivo, una consuetudine materiale, un modo di abitare i luoghi e occupare gli spazi che produce specifiche culture materiali, specifiche forme, specifiche “cose”.

Come se Hahn ci spingesse a riflettere su come la nozione tradizionale di paesaggio si sia quasi atomizzata, e soprattutto trasformata: da immagine ideale, o quanto meno descrittiva, a frammento “materico” e “materiale”, nel senso di materiale da costruzione. Anche se, almeno sembra, l’autore cerca in qualche maniera di investire anche questi frammenti di un accenno di “idealità”, di immaterialità, di suggestione introspettiva o emotiva, come in particolare emerge dall’ampio uso delle ombre. O dai rimandi alla fotografia del passato. Del resto è curiosamente ritorta la situazione di un italiano che voglia riprendere luoghi americani che fanno parte del suo immaginario “mitico”,  con lo sguardo a sua volta intriso di fotografia americana. E in effetti molte sue immagini sembrano Eggleston portato alle estreme conseguenze. Il lavoro sul paesaggio è anche, forse inevitabilmente, un lavoro sulla sedimentazione delle immagini “di paesaggio”. E sul modo in cui la fotografia lavora.

Edoardo Hahn
Urbanautica
L’Artiere