Il 3 aprile il Baretto era in trasferta alle Officine Fotografiche – Milano per l’incontro Sconfinamenti Fotografici, con gli autori Andrea Buzzichelli, Stefano Parrini, Giovanni Presutti e il curatore Steve Bisson. L’incontro proponeva “una ricognizione sulle geografie possibili del linguaggio visuale”.

I tre autori sono membri del collettivo Synapsee di cui Steve Bisson è curatore. Tutti e tre i progetti presentati possono essere inseriti nel campo della metafotografa, o fotografia riflessiva. C’è da dire che dopo l’evento il Baretto, gli autori e Bisson sono finiti in pizzeria e a causa del limoncello il resoconto può risultare lacunoso e alterato.

Due dei progetti si occupano di memoria e del suo deperimento. Uno si occupa di instagram. Due sono anche libri di Urbanautica. Il terzo è un’installazione.

L’installazione Resurrezione di Andrea Buzzichelli è così concepita: l’autore anni fa ha scovato e comprato per pochi euro in un mercatino ambulante una serie di contenitori attentamente catalogati pieni di diapositive di famiglia, fatte da un signore sconosciuto ai suoi famigliari nell’arco, apparentemente, di una ventina d’anni, tra i Sessanta e i Settanta, tra foto di viaggio e di varie occasioni. Le diapositive risultavano rovinatissime, attaccate da funghi e umidità che avevano prodotto effetti di degrado molto pesanti. Dopo vario pensare l’autore ha trovato il modo di farle sviluppare e stampare su grandi fogli di plexiglass, poi ne ha ritagliate delle parti e le ha applicate su pannelli led di varie dimensioni, protette sul davanti da una protezione di plastica trasparente. Ha poi appeso i led alle pareti della stanza delle Officine come fossero quadri retroilluminati, ricreando l’originario effetto diapositiva ma in grande formato. I particolari delle foto d’epoca smangiate da funghi e batteri e retroilluminati creavano effetti meravigliosi e inquietanti, corrodendo visi, oggetti, edifici, ricordi di persone di cui non sapremo mai nulla.

Il progetto di Stefano Parrini è per certi versi simile anche se i risultati sono stati ottenuti da una macchina invece che dai funghi. L’autore ha preso tutte le foto scattate per un anno col suo cellulare (migliaia di foto “normali”, di famiglia e simili), poi le ha messe nel cestino del pc e ha svuotato il cestino. In seguito ha messo in funzione un programma di recupero e ha guardato il risultato. La macchina, come è noto, non elimina i dati, semplicemente li mette in partizioni in cui possono essere sovrascritte. Il risultato del recupero sono foto smangiate, sovrapposte, virate, piene di buchi, linee, spezzature e disturbi elettronici provocati da mancanza di memoria e così via. Un effetto che, oltre a offrire un’estetica dell’immagine contemporanea digitale piuttosto acuta, fa anche riflettere sul deperimento degli archivi, in modo simile anche se diverso per scala e modalità rispetto alla riflessione offerta dall’installazione di Andrea Buzzichelli.
Molte immagini sono state raccolte nel libro Fail:

Il progetto di Giovanni Presutti invece è raccolto nel libro The era of beyond truth;

L’autore, incuriosito dal rutilante modo dei like su cui tutti soggiorniamo e che usiamo per scambiarci foto dalla natura prepotentemente indicale, relazionale e deperibile, ha comprato 500 follower su Instagram documentandone l’acquisto; poi per un anno ha seguito la “vita” di questi follower (alcuni in realtà erano inesistenti, puri fake, altri erano gestiti da computer, ma molti erano e sono persone reali sparse in tutto il mondo, che facevano la loro vita e le loro foto), tenendo traccia di tutta la loro attività su Instagram. Alla fine Presutti ha ri-fotografato l’enorme mole di materiale digitale inserendo però nelle foto anche interventi “manuali” di vario tipo, ne ha selezionato una parte e l’ha impacchettata per il libro, offrendoci un carotaggio planetario di modi di vita mediati dallo scambio visuale davvero interessante e spesso anche divertente.

Una bella serata, progetti di meta-fotografia non banali che indirizzano la ricerca, come ha sottolineato il curatore Steve Bisson, verso una sorta di rieducazione dello sguardo, spesso colonizzato dal già visto, dai cliché, dalle forme standard in cui il quotidiano e lo straordinario sono impacchettati per essere predigeriti come estetico, decorativo, brutale, wow, o altre amenità variamente edulcorate. Una colonizzazione del visuale che non è che l’altra faccia della auto-colonizzazione dei mondi della vita.